Il Tar della Sardegna, Sez Prima, con sentenza del 16 gennaio 2024 ha respinto il ricorso di un esercente contro un COmune per l’annullamento delle sanzioni amministrative accessorie, della chiusura temporanea dell’attività di sala della Sala Giochi.
Nello specifico il Comune aveva disposto la chiusura, rispettivamente per i diversi periodi di tempo indicati nelle singole ordinanze, della sala giochi “per violazione delle Ordinanze sindacali n. 19 del 28/04/2017 e n. 32 del 26/6/2017 con il quale è stata accertata la violazione dell’obbligo di rispetto degli orari di accesso agli apparecchi da gioco e di affissione dei medesimi”.
Il Tar ha rigettato la prima censura del ricorso con cui è dedotta la carenza di potere del Sindaco di adottare ordinanze di sospensione dell’attività della sala giochi.
“Il Collegio, pur rilevando la presenza dell’orientamento di segno contrario richiamato dalla parte ricorrente (….), ritiene di dover aderire all’orientamento già più volte seguito dalla giurisprudenza amministrativa, (…) che ha deciso l’appello avverso la sentenza di questo Tribunale relativamente proprio all’ordinanza xxxxx, che hanno previsto le limitazioni orarie e le conseguenti sanzioni tanto pecuniarie quanto quella della sospensione dell’attività in presenza di determinati presupposti.
Orbene, tale decisione del Consiglio di Stato, seppure ribadendo l’inammissibilità della censura già mossa avverso le ordinanze a monte del Sindaco sotto il profilo sanzionatorio, ne ha comunque rilevato l’infondatezza, ben ribadendo la tesi per cui “con il passaggio dall’autorità di pubblica sicurezza ai Comuni delle funzioni di cui al T.U.L.P.S. per opera dell’art. 19, comma 1, del d.P.R. n. 616 del 1977, infatti, sono transitati nella competenza degli enti locali anche i poteri sanzionatori, utilizzabili in presenza di violazione delle discipline specifiche che attengono alla tutela degli interessi pubblici diversi da quello dell’ordine e della sicurezza pubblica, ivi compresa la misura sanzionatoria della sospensione del funzionamento degli apparecchi di intrattenimento prevista dall’art. 10 del T.U.L.P.S. (Cons. Stato n. 6331/2020, cit.)”.
Con ampiezza di motivazione, che non si rinviene invece nell’orientamento richiamato dalla parte ricorrente, il Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire le ragioni che militano a sostegno dell’ammissibilità di una sanzione di natura interdittiva disposta dal Sindaco.
Il ragionamento, che il Collegio ritiene logico e pienamente condivisibile, si snoda lungo i seguenti passaggi argomentativi, (….), che muovono dalla riconosciuta competenza in favore del Sindaco nel disciplinare gli orari di apertura e chiusura delle sale giochi, per concludere in ordine alla correlata sussistenza di un potere sanzionatorio non solo pecuniario, ma anche di carattere interdittivo.
La decisione in parola infatti, alla quale, per quanto non richiamato, deve rimandarsi ai sensi dell’art. 88, comma 2, lett. d) cod. proc. amm., premesso che “nella materia dei giochi e delle scommesse lecite sussistono, oltre agli interessi tipicamente privati sopra evidenziati, una pluralità di interessi pubblici e generali, che possono essere individuati in quello dell’interesse economico – finanziario ed alla corretta gestione della concessione; in quello alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, finalizzato alla prevenzione dei reati, ricollegabile all’autorizzazione questorile; in quello alla quiete pubblico ed alla tutela della salute e più in generale complessivamente ad un ambiente cittadino salubre.
La tutela di tali diversi interessi risulta congruamente affidata a diversi poteri pubblici (l’amministrazione finanziaria per quanto riguarda l’aspetto concessorio; l’autorità di pubblica sicurezza – questore, per quanto riguarda l’aspetto autorizzatorio; l’autorità sindacale per quanto riguarda la salubrità dell’ambiente cittadino) che non confliggono tra loro proprio per le diversità finalità che essi perseguono e cui le rispettive competenze sono orientate”, afferma dunque che “deve logicamente e giuridicamente affermarsi la sussistenza anche di un corrispondente potere sanzionatorio, che sia effettivo e dunque non meramente simbolico o sproporzionato, in modo da garantire l’effettività della stessa disciplina sindacale; così come permane in capo ad esso l’ordinario potere di amministrativa attiva, vale a dire di cura diretta dell’interesse pubblico con le misure che possano di volta in volta essere più convenienti.
Invero una disciplina imperfetta, da un lato senza alcuna proporzionata sanzione e dell’altro senza – al contempo – misure di cura diretta dell’interesse pubblico, negherebbe da un lato la cogenza soggettiva delle prescrizioni, dall’altro l’essenza della funzione amministrativa che prescinde dai comportamenti indebiti e che è orientata oggettivamente a curare l’interesse pubblico.
Il che tradirebbe lo sforzo ricostruttivo operato dal giudice delle leggi e dalla giurisprudenza amministrativa di riconoscere in capo al sindaco – nell’ambito del potere sindacale di ordinanza di cui all’art. 50, comma 7, del D. Lgs. n. 267 del 2000 – il potere/dovere di tutelare l’interesse alla salubrità dell’ambiente cittadino (sub specie di interesse alla quiete pubblica e interesse alla salute pubblica) e sotto un profilo sistematico istituzionale di fatto irrazionalmente negherebbe (e su un terreno così sensibile e delicati quale quello in questione) la capacità che la legge attribuisce ai sindaci per dare espressione all’interesse generale dei cittadini e della idoneità dell’autorità comunale di cogliere, apprezzare, garantire e tutelare i precipui interessi del territorio.
Proprio per la necessità di un’azione complessiva di realizzazione effettiva di quanto appena detto, la sanzione dev’essere ragionevole, efficace, dotata di un sicuro carattere afflittivo e dunque di deterrenza.
Ma per quanto concerne la cura effettiva e concreta dell’interesse pubblico la mera sanzione pecuniaria amministrativa non appare e non è uno strumento di suo sufficiente a realizzare davvero l’interesse cui presiede: se la sanzione, in rispetto del principio di legalità, trova adeguata e sicura copertura nell’art. 7 bis, comma 2, del D. Lgs. n. 267 del 2000, a tenore del quale “La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal sindaco e dal presidente della provincia sulla base di disposizione di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari”, resta d’altra parte evidente che la mera sanzione pecuniaria prevista dal citato comma 1 dell’art. 7-bis (“Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro”) non spieghi alcun reale effetto ripristinatorio delle oggettive esigenze pubbliche poste dalle ordinanze sindacali sugli orari di apertura delle sale da gioco e scommesse e sul funzionamento degli apparecchi con vincita in danaro: del resto a nessuno sfugge che, se tutto si riducesse e si limitasse alla detta sanzione, fatalmente sarebbe agevolata una logica strettamente economica del rapporto costi/benefici, sicché il medio concessionario o titolare di sala giochi o degli apparecchi con vincite in danaro sarebbe facilmente indotto ad assumere il rischio e il relativamente tenue costo per la violazione dell’ordinanza sindacale consistente nel solo pagare la sanzione amministrativa (di importo mediamente assai contenuto) a fronte di un più elevato guadagno derivante dall’utilizzo della sala gioco o dal funzionamento degli apparecchi da gioco: conseguendo così gli inammissibili effetti pratici di una sanatoria a modesto onere economico. Non v’è chi non veda come un siffatto risultato anziché realizzare, neghi alla radice la cura dell’interesse pubblico.